



Prefazione di Mario Lunetta
In una poesia-manifesto come “Art poétique”, compresa in Jadis et naguère, Verlaine invita i nuovi poeti a uccidere l’eloquenza (“Prends l’éloquence et tords-lui son cou!”: chiaro riferimento a Hugo e al Parnasse) per abbandonarsi all”lmpair’ della musica (“De la musique avant toute chose”). Siamo al 1884. L’Impressionismo s’è affermato in pittura, è prossimo il Simbolismo, imminente la presenza dell’impalpabile Debussy. Non più quindi l’intreccio (o la consonanza) tra imago e verbum, ma quello tra verbum e musica. Le correspondances annunciate da Baudelaire sembrano realizzarsi, nella modernità più rarefatta, appunto su questa linea melodicamente estenuata. L’ondata va avanti fino ai primi del secolo successivo, quando la ferita dell’Espressionismo rimescola crudelmente i giochi, e li butta senza scampo sulla disarmonia, la frattura, il vortice. Lo sa bene una giovane poetessa come Anna Laura Longo, che frequenta attivamente al tempo stesso la scrittura e la musica, e mostra di aver afferrato con intelligenza e sicurezza di gesto l’impraticabilità di una retorica melodica, fissando al contrario, fermamente, lucidamente, gli effetti di una retorica della dissonanza. Piú di una volta, in un libro come Plasma, affiorano dichiarazioni di poetica magari soltanto implicite; ma almeno in un caso il “messaggio” è chiaro, e chiaramente detto: “Giusto un velo di trucco espressionista / mi separa dai cespugli esclamanti / – invalicabili spazi di respiro -. / Io mi chiedo / se il coraggio di un gonfiore assoluto / può eguagliare quello della tabula rasa. / fluorescente il gonfiore. / fluorescente la tabula rasa”.
Fin dal titolo l’operazione di Longo si presenta come indubitabilmente perentoria. E insomma chiaro che il tema centrale del libro è materico e corporale, anche se trattato con una sorta di freddezza matematica, di distanza da laboratorio. Il plasma, come si sa, e quella parte liquida del sangue che resta dopo l’eliminazione delle cellule ematiche, e contiene molte sostanze nutritive importanti (sali, proteine, etc.). Nel suo segno, si direbbe che il libro si articoli in blocchi di stringente durezza nei cui interstizi scorrono dei liquidi che non hanno un andamento per così dire selvaggio, ma sono costantemente regolati da un invisibile manometro. Insomma, Plasma è un libro “di regia”, al tempo stesso libero e calcolato, che tratta le proprie materie e la propria lingua in modi che dirci “magrittiani”: non solo nel senso che le immagini di mano dell’autrice disseminate a mo’ di finte indicazioni iconico-vcrbali (quasi poesie visive molto casual) sono sarcasticamente fuorvianti; ma soprattutto nel senso che il bersaglio verso cui è indirizzato lo sguardo del lettore è ogni volta falsato dai testi di pura scrittura. Plasma è un libro interessante perché costruisce la propria decostruzione, in tempi in cui la poesia non si pone troppi problemi, vola basso, mostra, perlopiù con sussiegosa malinconia, l’anima dell’autore stesa al sole ad asciugarsi dall’umidità che le traversie della vita le hanno scaricato addosso. Anna Laura Longo organizza una strategia del tutto antipatetica. Il pathos, se affiora dai suoi versi marmorizzati, è simile a un feto immerso nell’alcool: non commuove, semmai perturba. Ma anche il perturbamento, in questo libro, non persegue effetti choc. Persegue magari effetti stranianti, che utilizzano più di una volta – (spie di una visione decisamente antilirica e anticelebrativa dell’io) metafore “militari” che ben si adattano alle intenzioni di indagine proclamate – quasi fosse un inverosimile detective – dalla poetessa: “Qui lo sguardo peraltro ha uno snodo, / una sua militanza”. Ancora: “Le gambe per me sono state indovine, lucide di olio solare e su un tratto di terra battuta / hanno preso a schierarsi, / a sondare”. E ancora: L’estate rigonfia il suo volto / – pulsante colposo – / e m’intride di assetto guerriero… “. E chiaro che lo sguardo dell’interlocutore persiste “ma recide – ma recide – o domanda”?
Ma il gioco del trompe-l’oeil è sempre in atto. “Dal di dentro sfioro il corpo / stinto e sbilanciato / di una piena dismisura / ed approdo al chiarore atteso / del più scabro vacillamento”. È insomma, quello di Longo, un universo in costante deragliamento, in cui davvero è saltato una volta per sempre il rapporto rassicurante tra le Parole e le Cose. “Il tramonto è un superbo scaffale, / esponente di un radicale disorientamento!”. Niente, ancora una volta “magrittianamente”, corrisponde a se stesso. Le funzioni sono definalizzate. Un sottile vento “surrealista” spira tra i versi: “Mia nonna ha pregato come una spada, / marcandosi il colorito in un blocco distinto, / come un dirupo, una pietra pomice. / Invero due volte ha sospeso il bastone, / in strada ha sospeso il bastone / per congiungere lunghe le mani”. Oppure: “Ho le scapole spente / sagomate dal ghiaccio pugnace, / che riverbera accenti di boschi lontani. / Ogni sillaba d’odore reca sogni di lampade”: in cui perfino la reminiscenza pascoliana (del Pascoli di Gelsomino notturno,) viene volta (stravolta delicatamente)




